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The Ten Most Influential Internet Moments of the Decade

1. Craigslist expands outside San Francisco (2000)
2. Google AdWords launches (2000)
3. Wikipedia launches (2001)
4. Napster Shut Down (2001)
5. Google IPO (2004)
6. Online video revolution (2006)
7. Facebook opens to non-college students and Twitter takes off (2006)
8. The iPhone debuts (2007)
9. U.S. Presidential Campaign (2008)
10. Iranian election protests (2009)

internet inquina ….. Paradise (Not For Me)

Internet e le nuove tecnologie di comunicazione non hanno il pollice verde, anzi favoriscono decisamente l’inquinamento.
Frasi drastiche, ma suffragate da studi e da prove concrete. Il tutto rilegato in una ricerca compiuta dalla Gartner Americana.

Addirittura la grande rete sarebbe responsabile per il 2% della diffusione di Co2 in tutto il mondo e come se non bastasse questa percentuale è destinata a salire.
Numeri che fanno rabbrividire ma che hanno un’origine molto logica.

Stiamo vivendo in periodo di forte espansione delle nuove tecnologie.
Tutti quanti non abbiamo più un solo piccolo computer in casa, ma abbiamo telefonini, router, modem e così via.
Insomma rispetto a soli 10 anni fa la nostra vita in tal senso è molto cambiata.
Nessuno però ha fatto caso che tutte queste apparecchiature consumano corrente e ne consumano davvero molta.
Un computer da solo non incide molto nella spesa energetica, ma l’insieme di tutti gli apparati che lo espandono iniziano ad incidere significativamente nel consumo delle utenze.

Questa maggiore richiesta energetica se vista in larga scala, pensiamo a quanti milioni di persone usano internet, fanno comprendere quanto in effetti l’uso delle nuove tecnologie incida sulla richiesta energetica mondiale.

A questo punto è facile fare l’equazione: più consumo energetico, più energia deve essere prodotta e quindi maggiore inquinamento….
Soluzioni? Sicuramente realizzare sistemi a basso consumo energetico ma questo non basta.

Secondo gli esperti il vero “Uovo di Colombo” probabilmente sta nel sostituire gli attuali terminali con uno solo ma molto più potente che grazie alla virtualizzazione possa sostituire in pieno tutto l’hardware che adesso abbiamo in casa.
Il problema di questa soluzione? Che al momento costerebbe molto….

Gist, la rubrica che pesca dai social network

iù che per gli utenti occasionali Gist è pensato per le utenze professionali che utilizzano servizi come Linkedin e Facebook per conservare i dati di persone che hanno a che fare con il propro lavoro. “Siamo un piccolo team di ingegneri che provengono da compagnie come Amazon, Jobster, Infospace, Go2Net e Microsoft – si legge sul sito internet dedicato al servizio – vogliamo aiutarvi a costruire relazioni lavorative stabili con le persone che più vi interessano”.

Una volta registrati al servizio, Gist vi guiderà nella connessione di tutti i vostri account e potrete vedere generarsi e aggiornarsi automaticamente i profili di tutti i contatti e delle relative compagnie.

Per impostazione predefinita i contatti sono ordinati in base alla loro importanza (quantità di messaggi scambiati) oppure in base alla data, ma possono essere catalogati anche per competenza o società di appartenenza. Per ognuno di loro è possibile visualizzare status, interventi sui social network oppure le news. Laddove i campi sono vuoti è possibile inserire manualmente le informazioni come in una grande rubrica.

Gist è in fase di sperimentazione, per ora è possibile integrare mail e calendario da Outlook. Connettendo il vostro account Gmail ( va detto che il servizio è ancora molto lento) importerete contatti e relativi indirizzi, oggetti e, a scelta, anche messaggi, link e allegati.

Anche l’intergrazione con Linkedin non è ancora automatica quindi è necessario esportare i contatti (in CSV) e poi importarli in Gist. Per Facebook e Twitter esiste invece un tool automatico per importare l’elenco degli amici. E’ sufficiente cliccare sulle relative icone e inserire i propri dati di accesso. Gist offre anche un lettore di feed RSS per ricevere news in tempo reale sulla propria pagina principale.

isale for ebay and facebook only macuser

iSale una soluzione per Mac semplice ed integrata in grado di gestire dall’inizio alla fine aste ad alto impatto visivo. Il programma è integrato con Spotlight, Dashboard, iPhoto ed iCal, e gode di un’interfaccia piuttosto intuitiva, grazie all’uso dei templates integrati (ma altri sono scaricabili gratuitamente dal sito della Equinox).

Con iSale si può ricercare attraverso parole chiave le aste concluse, proprie ed altrui, ed importarne testo e foto all’interno del template scelto per la nuova asta. Ciò snellisce notevolmente il lavoro di immissione dei dati e delle descrizioni per prodotti simili che, altrimenti, dovrebbe essere fatto a mano ogni volta.

Inoltre, integrandosi perfettamente con Picasa, il servizio di image hosting offerto da Google, iSale lascia libero l’utente di scegliere numero e grandezza delle foto senza preoccuparsi delle relative tariffe di eBay.

Social market

È uno di quei record che rischiavano di sgattaiolare nelle pieghe della cronaca per riapparire poi, con l’ andamento carsico dei piccoli grandi fenomeni, nei manuali di storia. Storia dei media, beninteso, che però sempre più si sovrappone alla storia tout court. Succede quindi che Britney Spears, megastar globalee sismografo vivente dello spirito del tempo, appare in un nuovo spot per una linea di abbigliamento che la sponsorizza. Camicie folke gilet in finto montone, roba per cui le ragazzine vanno fuori di testa. E siccome sono abiti rivolti a loro, non alle mamme e tantomeno alle zie, l’ attesissima «prima» non esordisce in tv e neppure sui siti classici. Farebbe così vecchio, così 2008. La première atterra su Facebook e viene fatta decollare di nuovo, ancora e ancora, su Twitter. Da Britney, che cita il marchio ogni volta che può, e anche quando c’ entra poco o nulla (d’ altronde è pagata per farlo). E dai suoi 2 milioni e mezzo di “followers”, i seguitori dell’ ormai celebre sito di micro-blogging che aspettano trepidanti gli aggiornamenti sulle oscillazioni del suo umore e che, senza guadagnarci una lira, si trasformano in volenterosi uomini-sandwich digitali rilanciando i messaggi della loro beniamina. E del brand al quale è vincolata da miliardario contratto. Solo oggi, dopo ben quattro giorni, uno sproposito secondo la cronologia internettiana, la pubblicità arriverà anche sul piccolo schermo. Mtv, per la precisione, l’ ex canale giovane che a confronto oggi sembra nuovo come il chinotto. «Igiovani si rivolgono ormai in prima battuta ai social network per prendere le decisioni su cosa comprare – spiega a Usa Today Charlene Li, fondatore della società di consulenza Altimeter Group – Se tu azienda non ci sei, non li raggiungerai». È semplice e scontato: se cerchi adolescenti e ti presenti in una bocciofila o in una balera, ne uscirai deluso. Ogni demografia ha i suoi luoghi di incontro e i “non luoghi” telematici non fanno eccezione. Eppure è la prima volta che una campagna pubblicitaria importante riconosce di fatto che il sorpasso è avvenuto. Pensando prima al web 2.0 e poi al vecchio piccolo schermo. Titolo del capitolo, quindi: «L’ anno in cui le aziende preferirono i social media agli old media per vendere ai teenager». La congiuntura economica, dal canto suo, spinge in questa direzione. Con la crisi, prevedono gli studi della National Retail Federation, i genitori americani spenderanno il 7,7% in meno rispetto al back-to-school dell’ anno scorso, la stagione dello shopping che corrisponde al settembre del calendario gregoriano. Le aziende sanno che potranno fare affidamento su minori entrate e adeguano i budget pubblicitari di conseguenza. Bisogna sparare meno e mirare meglio. E per centrare i ragazzini non c’ è posto migliore che i social network. Il fenomeno, in verità, sorpassa il loro perimetro anagrafico. Nel 2007, si apprende da un rapporto Forrester Research, la fetta di americani che usavano qualche social media era il 57 per cento, ora sono il 75. Due su tre vi trascorrono tempo e investono energie. Le compagnie hanno preso nota e organizzato una rapida controffensiva. L’ anno scorso, per dire, American Eagle non appariva nemmeno sui radar di Twitter. Oggi la catena di abbigliamento basic ha varato un’ intera squadra di specialisti, presi dal marketing e dalla pr, per coordinare la presenza strategica sui vari social network. Organizzando una serie di eventi interattivi, come la messa in palio dalla propria pagina Facebook, ogni ora del 6 agosto, un nuovo modello di denim. Ovviamente è un esempio su cento. Non c’ è praticamente marchio negli Stati Uniti che in qualche modo abbia a che fare con i giovani che non abbia approntato iniziative sui media sociali. Da J. C. Penney hanno aperto un canale su Facebook che permette ai ragazzi di esprimersi liberamente sui modelli delle nuova collezioni. Da Bebe, altro must dell’ abbigliamento minorenne, gli utenti possono “appiccicare” i loro ritratti digitali sul corpo dei protagonisti di un video promozionale. Anche per loro c’ è in ballo un paio di jeans “riserva” da 199 dollari. La Nike consente a chiunque di personalizzare le scarpe usando uno smartphone e poi “condividere” il risultato su Facebook. Se il vostro design piace potete famosi. Staples, la principale catena di cartoleria, fa leva sul civismo, invitando a donare quaderni e penne per gli studenti che non se le possono permettere. La voce viene sparsa, neanche a dirlo, attraverso il passaparola del web 2.0. Gli avanguardisti crescono man mano che si consolidano i risultati. Stando a un recente studio di Altimeter Group i m a r c h i a t t i v i s u i s o c i a l network hanno visto, nonostante la crisi generale, crescere i loro fatturati del 18%. Quelli che li hanno snobbati sarebbero stati puniti. Uno scenario che deve suonare convincente per le aziende statunitensi a giudicare dalla proiezione schizzata dagli analisti di Forrester. Gli investimenti pubblicitari su questi media dovrebbero esplodere da 455 milioni di dollari del 2008 a 3,1 miliardi entro il 2014. È la traiettoria di un razzo, non di un aereo. Se i manager si fregano le mani, i genitori si grattano la testa. I loro figli sono bersagliati nel giardinetto elettronico dove si svolge buona parte della loro socializzazione. «I ragazzi si espongono di continuo su Facebook e Twitter – avverte Alissa Quart nel libro Branded: the Buying and Selling of Teenagers – e non vedono la differenza tra pubblicizzare se stessi ed essere bersaglio di pubblicità». Vanno lì per fare amicizia, mettere in rete le loro passioni. Hanno le difese abbassate nei confronti di qualsiasi messaggio, commerciale incluso. Non si trovano nella condizione antagonistica delle pubblicità tradizionali: il cosiddetto “interruption marketing” che sospende il bacio tra i due protagonisti per costringerti ad ascoltare i vantaggi di un olio a bassa acidità. Questo è il regno morbido del “permission marketing”, in cui non subisci ma vai a cercartela, la pubblicità. I tariffari però non si fidano ancora e pagano, per le inserzioni sui social network, una piccola porzione di quanto sganciano per gli altri media. Perché sono convinti che ogni invadenza dei marchi, per quanto mite, stoni in uno spazio nato per altro. Obiezioni che non sembrano scalfire invece coloro che usano Twitter e i suoi fratelli per la loro potenzialità di passaparola più che come supporto pubblicitario. Sono soprattutto le ditte piccole o familiari, avvezze al “conto della serva”, ad averlo capito. Non potrebbero mai permettersi di far promozione sui giornali e tantomeno in tv, quindi optano per il mezzo che coniuga meglio economicità e flessibilità. È il caso di Curtis Kimball e del suo carretto su ruote di crème brûlée a San Francisco. Senza neppure capire bene perché – tranne il fatto che in California ti guardano come un troglodita se non hai un identificativo Twitter – si è iscritto e ha accumulato 5.400 followers ai quali comunica dove potranno trovare il suo banchetto itinerante e le sue specialità del giorno. «Mi piacerebbe poter dire – ha confessato al New York Times – di aver avuto un’ idea e una strategia molto buone ma la verità è che Twitter è stato essenziale nel mio successo». Viva la sincerità. Lo stesso dicasi per Umi, un sushi restaurant della stessa città che decanta in 140 caratteri agli abbonati le meraviglie del tonno rosso che servirà in serata. Facebook e YouTube restano, per il momento, portentosi buchi neri finanziari sostenuti da venture capitalist che bruciano miliardi nell’ attesa della loro redditività. Lo stesso vale per Twitter che ha un modello di business ancora più indecifrabile. Eppure, qualche tempo fa, un hacker ha intercettato la corrispondenza elettronica di un dipendente con la moglie di un fondatore. Dentro c’ era la previsione top secret sull’ incremento dei ricavi dai 4,4 milioni di quest’ anno ai 140 milioni dell’ anno prossimo. L’ azienda si è limitata a dire che sono calcoli vecchi. A prestare attenzione al video di Britney e ai dessert di San Francisco si comincia a capire da dove verrà una parte di quei soldi. – RICCARDO STAGLIANÒ